Unire le classi subalterne, ricostruire una democrazia progressiva, restituire potere al popolo
Unire
le classi subalterne, ricostruire una democrazia progressiva, restituire potere
al popolo.
Un appello al mondo della cultura, dell’arte, della formazione e dell’Università, della comunicazione
Un appello al mondo della cultura, dell’arte, della formazione e dell’Università, della comunicazione
L’«Occidente liberale» è la realizzazione o
la negazione della democrazia? E l’Italia è ancora un paese democratico? E lo è
nella stessa misura in cui lo è stato nei decenni alle nostre spalle e cioè in
quel senso avanzato e progressivo che avevano in mente i partigiani nel
liberare il paese dall’occupante nazifascista e i Padri costituenti nel
sottolineare nella nostra Carta fondamentale la centralità del lavoro e della
partecipazione popolare ma anche della pace, dell’antimperialismo e
dell’anticolonialismo, ovvero del principio di eguaglianza
sul piano interno e su quello internazionale?
E’ vero: non c’è forse paese nel quale si
vada così spesso a votare.
Tuttavia, la crescita esponenziale
dell’astensionismo - sistematicamente sollecitato dall’ideologia dominante e
dalle principali forze politiche sulla scorta del modello anglosassone e giunto
ormai a livelli tali da rendere illegittimo ogni risultato elettorale -, si
configura come il sintomo della de-emancipazione di fatto di milioni di persone
e cioè come una revoca sostanziale di un suffragio universale divenuto, nella
pratica, inutile.
Chi votiamo, oltretutto, quando andiamo alle
urne? Abbiamo veramente quella libertà di scelta che l’ampiezza apparente
dell’offerta lascia presagire?
Distrutti i partiti politici di massa, la
scelta elettorale non è più una scelta tra posizioni realmente alternative, tra
programmi e idee che siano espressione di interessi diversi o contrapposti, ma
una competizione tra semplici varianti del governo neoliberale delle cose. Una
sorta di perpetuo Talent Show tra cordate o comitati che, all’ombra di questo o
quell’altro leader di un bonapartismo postmoderno e spettacolarizzato, ci
riconducono alla prassi della vecchia Italia liberale e pre-democratica. Quando
cioè i diritti politici coincidevano con il monopolio della ricchezza e i governi
erano il comitato d’affari delle classi dominanti.
Inoltre: che ne è dei diritti economici e
sociali conseguiti nel dopoguerra, senza i quali la democrazia rimane solo un
privilegio di chi può permettersela? La loro universalità è stata in larga
parte smantellata con un metodo e una meticolosità per molti versi simili dai
governi di centrodestra come da quelli di centrosinistra, da Berlusconi e
Salvini come da Prodi e D’Alema, da Monti come da Renzi. Ed è ridotta oggi a un
servizio minimo essenziale che si propone di garantire la sola sopravvivenza.
La
formazione pubblica, dalle scuole primarie all’Università, è stata sottomessa
a un format privatistico che configura un sistema duale e classista. Si è imposto un
modello pedagogico che
dietro la retorica dell’”eccellenza” mortifica ogni merito e bisogno reale, perché - tranne che per pochi privilegiati e cioè per le élites destinate a occupare i segmenti più alti del mercato del lavoro e assorbite dai residui settori industriali avanzati ancora presenti nel paese, - deve
in realtà allevare forza-lavoro a basso costo per un apparato produttivo che
è in gran parte arretrato e parassitario e non ha bisogno di cultura e
innovazione, ricerca e sviluppo, ma è orientato a competere al ribasso.
Il diritto alla salute esiste ormai soltanto sulla
carta e le differenze sociali, determinando le capacità di accesso alle cure
private, sono tornate a essere differenze che si riverberano sulla stessa
aspettativa di vita dei singoli e delle classi.
Nei sistemi pensionistici ogni forma
solidarietà sociale è stata smantellata e - soprattutto per quanto riguarda le
generazioni più giovani, esposte a un mercato del lavoro selvaggio di tipo
ottocentesco nel quale la contrattazione collettiva è stata neutralizzata e la
precarietà è divenuta la norma che garantisce uno sfruttamento crescente -
ciascuno si ritroverà presto solo e privo di protezioni, con i propri limiti e
i propri fallimenti.
Poiché però il sistema di Welfare del
dopoguerra è stato una grande operazione di redistribuzione di ricchezza e potere
che muoveva dal presupposto dell’intervento dello Stato moderno nelle
contraddizioni della società civile, il deserto cresciuto attorno a noi
rappresenta anzitutto il segno di una grande riscossa antistatalistica delle
classi proprietarie, la cui lotta di classe non è mai stata così efficace. In
pochi decenni - dalla sconfitta degli operai Fiat nel 1980 al referendum sulla
scala mobile e poi dagli accordi sulla concertazione e sul costo del lavoro
sino al pacchetto Treu e al Jobs Act - queste classi si sono riprese con gli
interessi già sul piano normativo tutto ciò che i ceti popolari erano riusciti
a conquistare in centocinquanta anni di conflitto dal basso. Approfittando
infine della crisi economica per ridurre al minimo la percezione stessa dei
diritti sociali e per derubricare il sentimento di giustizia a innocuo
moralismo impolitico.
Proprio questo è il punto
fondamentale, però: a chi serve la democrazia intesa in senso pienamente
moderno, quella democrazia che risulta oggi perduta in Italia come nell’«Occidente
liberale», serve ai deboli o ai forti? Ai poveri o ai ricchi? A chi è
già riconosciuto o agli esclusi?
Come ci ha spiegato una volta per tutte
Antonio Gramsci, sono le classi subalterne ad averne più bisogno. E la storia
della democrazia è in questo senso anzitutto la storia della lotta di queste classi,
della loro organizzazione e della loro complicata unità, al fine di modificare
rapporti di forza millenari e conquistare la dignità umana e il riconoscimento
nella collettività politica.
La crisi della democrazia e la sua
minimizzazione – la sua separazione da ogni elemento di socialismo -, al rovescio, è
allora in primo luogo la crisi della capacità popolare di organizzarsi in
classe consapevole, di confliggere e difendersi. L’incapacità degli esclusi di
ricominciare a lottare contro ogni discriminazione, per portare maggiore
equilibrio nelle differenze sociali e infine toglierle, per mettere in
sicurezza ciò che è stato conquistato – il salario, il tempo di vita, la
bellezza della partecipazione politica… - e per andare anzi ancora più avanti
nella costruzione consapevole dell’unità del genere umano.
Ma il neoliberismo odierno - ovvero il
programma liberale puro e privo di ostacoli con il suo corollario
post-democratico - è un destino obbligato per questa semi-colonia che è
l’Italia, nella quale la retorica verbale “sovranista” dei movimenti
populistici e delle destre più rozze si scontra con la realtà degli arsenali e
delle armate NATO e USA presenti nel territorio?
La crescita degli squilibri
sociali, della quale lo scollamento inarrestabile tra salari e profitti è
plastica rappresentazione, è certamente il risultato di una sottrazione degli
spazi decisionali, in seguito a una delocalizzazione dei poteri verso organismi
sovranazionali e verso entità tecnocratiche irresponsabili, è vero. Ma è ancor
prima il risultato di una catastrofica sconfitta sociale e politica che, pur
avendo un nesso non revocabile con le vicende della Guerra Fredda e con immani
trasformazioni dello scenario globale e dei rapporti di forza tra le regioni
del mondo, deriva anzitutto dal venir meno della solidarietà tra le classi
subalterne e dalla frantumazione della loro coscienza di sé e della loro
organizzazione autonoma.
Se la democrazia è nata quando ciò che era debole
e diviso si è unito, facendosi forte nel partito e nel sindacato sino a farsi
riconoscere e rispettare come classe dirigente nazionale, la crisi della
democrazia esplode invece quando ciò che era stato unito viene nuovamente
diviso e ridiventa debole. Sino al punto che la lotta non avviene più oggi tra
ciò che è in basso e ciò che è in alto, come pure viene assai spesso ritenuto
dai teorici del “populismo”, ma si manifesta sempre più come una guerra tra
poveri. Una guerra nella quale i più deboli non sono più in grado di
comprendere le ragioni della propria sofferenza e – cosa ancor più evidente in
relazione al fenomeno epocale delle migrazioni dei popoli, oggi spesso
grottescamente assimilato a un fantomatico complotto sostituzionista ai danni
della “razza bianca” - si scannano tra loro, esponendosi all’influenza delle
destre più pericolose di vecchio come di nuovo tipo.
E’ un esito, questo, al quale purtroppo il
mondo della cultura, dell’arte, della formazione, dell’università e della
comunicazione – al quale in particolar modo ci rivolgiamo - non può dirsi
estraneo, avendo per lungo tempo accompagnato lo slittamento a destra del
quadro politico complessivo attraverso l’elaborazione di forme di coscienza
ultraindividualistiche e di valori competitivi e con la contestazione
relativistica dell’idea stessa di progresso, uguaglianza e giustizia sociale.
Non c’è alternativa, allora, e non ci sono
scorciatoie “governiste” per chi voglia riscoprire la democrazia moderna e
rilanciare – in una fase tutt’altro che “rivoluzionaria”
o anche solo espansiva - quel progetto incompiuto che la Costituzione ci ha
trasmesso in eredità: non l’incubo padronale di una fantomatica democrazia
immediata della rete, né il vano sforzo di condizionare o riconquistare il
PD; ma un lungo
lavoro di organizzazione e auto-organizzazione, di confronto e mediazione, che ricostruisca
un fronte popolare tenendo insieme e facendo interagire partiti politici, forze
sociali, movimenti di lotta, e che lo faccia ben al di là dell’orizzonte
elettorale contingente.
Un lavoro che - con umiltà e modestia - semini coerenza e intransigenza oggi
per raccogliere fiducia domani.
Rinunciare, perciò, ai compromessi al ribasso
e alla semplice riduzione del danno nell’ambito di un percorso di
minimizzazione della democrazia e provare invece a invertire decisamente la
rotta. Pur con mille insufficienze e contraddizioni - e ricominciando dopo aver
appreso da quegli errori che hanno regalato militanti all’astensionismo, al
Movimento 5 Stelle e alle destre -, ripensare la crisi della sinistra
(che è ad un tempo la crisi della politica e della coscienza moderna) e
riconquistare autonomia, per radicarci di nuovo negli interessi dei subalterni.
Accumulare le forze per tornare a incidere al più presto nella realtà - anche
attraverso i necessari strumenti di organizzazione, dibattito e comunicazione -
e per tenere aperto l’orizzonte di una trasformazione dello stato di cose presenti.
Unire
ciò che è stato diviso, ricucendo il tessuto lacerato della società
Ridare
organizzazione e rappresentanza alle classi subalterne e sostenere i popoli e i paesi oppressi o
minacciati dall’oppressione
Riequilibrare
i rapporti di forza nel conflitto politico e sociale
Ridistribuire
ricchezza e uguaglianza nel paese e nel mondo intero
Combattere
dappertutto contro il capitalismo, il colonialismo e l’imperialismo
Restituire
finalmente pace e potere al popolo
Domenico Losurdo (Università di Urbino); Angelo d'Orsi (Università di Torino); Stefano G.
Azzarà (Università di Urbino); Alexander Höbel (Università di Napoli “Federico
II”); Davide Busetto (studente Università di
Padova); Guido Carpi (Università “Orientale” di Napoli); Riccardo
Cavallo (Università
di Firenze) Antonello Cresti (saggista e musicologo); Raffaele D'Agata (Università di Sassari); Pierre Dalla Vigna
(direttore Edizioni Mimesis); Marco Di Maggio ( Sapienza, Università di Roma); Carla Maria Fabiani (docente storia e filosofia nei licei, Lecce); Roberto Fineschi (Siena School for Liberal Arts);
Francesca Fornario (giornalista e autrice satirica, Il Fatto Quotidiano);
Gianni Fresu (Universidade Federal de Uberlandia, Brazil); Fabio Frosini (Università di Urbino); Guido Liguori (Università
della Calabria); Giuliano Marrucci (giornalista, Rai-Report); Raul Mordenti
(Università di Roma Tor Vergata); Alessandro Pascale (insegnante precario Storia e
Filosofia, Milano); Marco Veronese Passarella (Leeds University);
Donatello Santarone (Università di Roma III);...
Marco Di Maggio ( Sapienza, Università di Roma)
RispondiEliminaDavide Busetto, studente presso l'Università di Padova
RispondiEliminaAntonello Cresti, saggista e musicologo
RispondiEliminacarla maria fabiani (docente storia e filosofia nei licei Lecce)
RispondiEliminaMi riconosco in pieno, e identifico in ciò il mio impegno. Raffaele D'Agata (già ordinario di Storia contemporanea all'Università di Sassari)
RispondiEliminaSalvatore Favenza, studente presso l'Università degli Studi di Napoli Federico II.
RispondiEliminaAndrea Genovese (Università di Sheffield)
RispondiEliminaAlessandro Pascale, insegnante Storia e Filosofia, Milano
RispondiEliminaEmiliano Alessandroni (Università di Urbino)
RispondiEliminaRoberto Cantoni (Universität Augsburg)
RispondiEliminaGreta Bertozzi, studentessa presso Università di Urbino
RispondiEliminaDavide Matrone (Universidad Politécnica de Quito - Ecuador)
RispondiEliminaMario Pansera, University of Bristol
RispondiEliminaElena Maria Fabrizio, docente di Filosofia e Storia
RispondiEliminaMarco Paciotti (studente Università Urbino - redattore La Cittá Futura)
RispondiEliminaAndrea Parziale, Scuola Superiore di Studi Universitari e Perfezionamento Sant’Anna (Pisa)
RispondiEliminaCarolina Fabbri, studentessa Università di Urbino.
RispondiEliminaDocente Filosofia e Storia nei licei, Roma
RispondiEliminaGabriele Repaci (redattore Das Andere - L'altro)
RispondiEliminaMario Pansera (University of Bristol)
RispondiEliminaPerchè carla maria fabiani non ha le iniziali maiuscole come tutti gli altri? Lapsus freudiano da paternalismo latente?
RispondiEliminaRoberto Aureli, laurea in Filosofia Università di Milano.
RispondiEliminaLaura Nanni
RispondiEliminadocente di Storia e Filosofia nel liceo
coordinatrice di A.P.S. Art'Incantiere
Sabato Danzilli, laureato in filosofia presso l'Università degli Studi di Napoli "Federico II"
RispondiEliminaRenato Caputo, docente di storia e filosofia in un Liceo di Roma e all'Università popolare A. Gramsci, redattore de "La città futura".
EliminaAlessio Frau, studente presso Università degli studi di Cagliari
RispondiEliminaEdoardo Raimondi, Università di Urbino
RispondiEliminaGabriella Giudici, insegnante di Filosofia e Scienze umane - Perugia
RispondiEliminapensionato ed ex consulente informatico
RispondiEliminaPaolo Rizzi - Network for the Advancement of Social and Political Studies / Università di Milano
RispondiEliminaProfessore d'Orchestra presso Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
RispondiEliminaLuciana Opassi Bohne--Docente, emerita, Edinboro University of Pennsylvania.
RispondiEliminaMatteo Bifone ( universita La Sapienza)
RispondiEliminaMaurella Carbone, insegnante
RispondiEliminaEmilio Cutillo docente di Filosofia e Storia - Benevento
RispondiEliminaValeria Finocchiaro, dottoranda Università di Roma Tor Vergata
RispondiEliminaangelo tantaro, direttore di Diari di Cineclub
RispondiEliminastudente, ILLC - Universiteit van Amsterdam
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